STORIA DELLA LIGURIA DURANTE IL FASCISMO
3. LO STATO FASCISTA: 1926-1929

E’ questo il terzo volume dedicato alla storia della Liguria durante il fascismo e riguarda il quadriennio 1926-1929, termine entro il quale il regime fu compiutamente definito in tutte le sue componenti. In seguito, infatti, i cambiamenti apportati furono pochissimi, in genere per migliorare o perfezionare misure già precedentemente introdotte. Nell’arco di tempo considerato si assisté al definitivo tramonto degli ultimi barlumi dello Stato liberale e all’affermazione dello Stato fascista, ottenuto riformando – spesso drasticamente – i precedenti istituti e creandone di nuovi. A differenza della ricerca già compiuta, sviluppata in senso cronologico, qui, senza peraltro dimenticarcene, abbiamo preferito privilegiare l’indirizzo «per settori», incentrato su tre filoni principali: fascismo e fascistizzazione, lotta agli oppositori, strutturazioni socio-economiche. Inutile ripetere che questa distinzione è puramente metodologica, per rendere la materia meno frammentaria e di più immediata presa per il lettore; ma, benché trattati separatamente, ciascuno dei tre è strettamente connesso agli altri due e soltanto il loro intreccio, che va sempre tenuto presente, può rendere appieno l’idea di come realmente si svolsero i fatti. Partendo dal fascismo, che negli anni già trascorsi si era rivelato tutt’altro che monolitico, se dal 1926 non ebbe altre crisi, non si era conclusa la vicenda dei fiancheggiatori, che gli squadristi e gli elementi più accesi consideravano degli intrusi, né gli episodi di intolleranza, talvolta gravissimi, come quelli accaduti a Genova dopo l’attentato Zamboni, quando fu incendiata nuovamente la sede de Il Lavoro – che tra l’altro, dal 1924 in avanti, poté considerarsi allineato alle disposizioni del regime – e devastati circoli e studi di professionisti. Si ebbero morti e feriti con il risultato che da parte dei vertici fascisti venne impressa una brusca accelerata al processo di epurazione, in corso da quando Turati era subentrato a Farinacci alla segreteria del partito. Malgrado ciò episodi di intolleranza – che non solo riguardarono oppositori, ma anche fascisti in lotta per la spartizione del potere o per questioni di campanilismo – punteggiarono la storia ligure almeno fino al principio del 1928; in alcune località, per esempio Sarzana, si spinsero oltre e forse qualcosa rimase lungo l’intera storia del regime. Dal 1926 prese però avvio contestualmente e decisamente la fase istituzionale: sempre meno fascismo-movimento, ovvero sempre meno episodi ascrivibili allo squadrismo pre e post «marcia su Roma», sempre più fascismo-regime, ovvero sempre più celebrazioni con i suoi rituali e i suoi miti e preponderante presenza dello Stato a ogni livello. In parallelo, con la crescita delle organizzazioni collaterali inquadrate dal partito e con l’inizio della politica che privilegiava la ricerca del consenso, cominciò il tentativo di fascistizzare la società. I cardini del processo risiedevano in determinate costanti: politica sociale con la creazione ex-novo di numerosi istituti, alcuni dei quali (pensiamo per esempio all’Inps, all’Iri, all’Inail, all’Inam) destinati a sopravvivere al regime, il cui beneficiario privilegiato avrebbe dovuto essere il popolo, ferreo controllo dei media, della cultura, della scuola e di altri organismi attraverso un gigantesco apparato burocratico-repressivo, che dal settembre 1926 fu costantemente mantenuto in efficienza dall’ex prefetto di Genova Arturo Bocchini, artefice della riorganizzazione della polizia, della creazione dell’Ovra e del Casellario politico centrale: alla fine del 1927 conteneva già oltre centomila fascicoli nominativi e negli anni successivi si accrebbe ancora. Bocchini, oltretutto, mantenne inalterato il suo potere fino al 1940, cioè per quasi quattordici anni, un arco di tempo sufficiente per un’impostazione autoritaria che non si fermò al tramonto del fascismo. La fascistizzazione, spiegata in poche parole, significò gettare le basi che avrebbero permesso di forgiare il perfetto fascista, fedele unicamente ai valori della dottrina, disciplinato, «monolitico», rispettoso della gerarchia e ligio al principio che il «duce» aveva sempre ragione. Al «vero» fascista, come al partito e agli altri organismi, correva pure l’obbligo di proclamarsi devotamente asservito allo Stato. Che nelle sue diramazioni periferiche era incarnato dal prefetto, la vera figura-chiave dell’impalcatura così costruita dal gennaio 1927 quando Mussolini, in una famosa circolare, ne precisò i compiti: primo fra tutti sarebbe diventato distinguere i cittadini fascisti da quelli che non lo erano mediando – o reprimendo – i contrasti. Un disegno, la fascistizzazione, che non riuscì principalmente per la mancanza di due fattori: una vera e omogenea classe dirigente fascista – per cui molte nel contesto furono le situazioni di compromesso – e il tempo, troppo esiguo per far convergere gli italiani verso una significativa e duratura forma totalitaria. Senza contare la presenza sul territorio di alcuni ineliminabili soggetti, quali il re, il papa e in qualche misura i grandi industriali che rappresentarono altrettanti ostacoli a che il totalitarismo fosse davvero realizzato. La fascistizzazione – e siamo al secondo filone – prevedeva il partito unico (non tragga in inganno il termine partito, distantissimo dalla moderna concezione di partito politico; in quello fascista era abolito ogni «elezionismo», le nomine giungevano dall’alto e non era consentita la critica, neppure larvata) e la lotta agli oppositori. Bandite altresì, dal dizionario del «vero» fascista, parole quali liberalismo, socialismo e comunismo, ideologie considerate corrotte. Meno che mai erano accettati democrazia e pluralismo, che formavano invece il bagaglio di quasi tutti gli antifascisti. In effetti, azioni verso questi ultimi si erano avute negli anni precedenti, ma la vera svolta furono le leggi per la difesa dello Stato, o «fascistissime», emanate nel novembre 1926, con cui tra l’altro si dichiararono tutti i partiti fuori legge, si soppresse la stampa non «allineata», si introdusse la pena di morte, il confino di polizia e fu chiamato a giudicare l’antifascismo il Tribunale speciale. Tra la fine del 1926 e il 1929 per gli antifascisti a qualunque titolo si prepararono tempi durissimi. Per rendere il clima del momento abbiamo tra l’altro riportato tutte le sentenze emesse in Liguria dal Tribunale speciale nel periodo considerato, tutte le assegnazioni al confino scaturite dai pronunciamenti delle varie commissioni provinciali, ma altresì i processi contro oppositori celebrati davanti ai tribunali ordinari (che per i verdetti talora blandi suscitarono proteste da parte fascista) e i processi, con relative condanne, per le «minacce» a Mussolini, le attività di polizia e Milizia per stroncare la diffusione della stampa clandestina, la battaglia contro gli esuli politici, spregiativamente definiti dai fascisti «fuoriusciti», il ruolo dei delatori e dei confidenti dell’Ovra nonché l’elenco completo di quelli attivi nella regione. E, ancora, i vari tentativi, spesso infruttuosi, compiuti dagli antifascisti per dimostrare, a gruppi ristretti di simpatizzanti, che qualcosa si poteva fare, sia all’interno – i comunisti, per esempio, tentarono di organizzare cellule di officina e tennero in vita la CGL dopo il suo autoscioglimento – che all’estero ma con collegamenti, benché scarsi e sporadici, sul territorio nazionale: la Concentrazione antifascista e dalla fine del 1929 Giustizia e Libertà, raggruppamenti attivi soprattutto sul piano morale, che nella regione poterono contare su qualche simpatizzante poi individuato dalla polizia e, dalla fine del 1927, ebbero un nemico in più: Giovanni Ansaldo, che dalle pagine de Il Lavoro e al termine di un breve periodo di confino, su interessamento di Lodovico Calda, aveva accettato in modo anonimo di criticarne l’operato, cominciando a rendere fattiva quella «convergenza» che l’avrebbe condotto, in quanto direttore de Il Telegrafo, a rivestire l’ambiguo ruolo di «giornalista di Ciano», che della testata livornese risultava proprietario. Ci è poi parso significativo riprendere i difficili rapporti del regime con il mondo del cattolicesimo organizzato, che si voleva stroncare per legare le masse che vi riconoscevano al carro del Pnf. In particolare, interessavano i giovani, che secondo i programmi di fascistizzazione erano destinati a diventare il futuro del fascismo; i più dotati, poi, si sarebbero potuti inserire nei quadri della classe dirigente. Per questo divenne un obbligo morale sottrarli a perniciose influenze di qualunque natura. Ora, poiché l’Azione cattolica e le sue diramazioni entrarono nelle mire di Mussolini, per conseguenza entrarono in quelle dell’intero apparato. Si giunse così a sciogliere, gradualmente, circoli e associazioni; dapprima gli Eslporatori nelle città con meno di ventimila abitanti, poi anche nelle città maggiori e non si arrivò a sciogliere l’intera Azione cattolica per il fermo atteggiamento del papa, che ne ottenne sì il riconoscimento, ma a patto che i suoi compiti si attenessero al campo strettamente religioso. In Liguria si soppresse il sopprimibile e si verificarono particolari episodi, come quello riguardante il circolo di S. Erasmo a Bonassola o quello degli Esploratori di Genova. Si ebbero resistenze, che via via si affievolirono e se l’opposizione di parte degli ambienti cattolici al regime fu una costante, non costituì mai un serio pericolo. Non si trascurò, comunque, di controllarla. Del resto, ogni attività che non avesse ottenuto il prescritto riconoscimento fu sempre attentamente sorvegliata. Il terzo filone attiene a questioni socio-economiche, a cominciare dalla creazione della Grande Genova, avvenuta al principio del 1926 accorpando alla città-madre diciannove comuni della cintura, che da quel giorno smisero di essere tali per trasformarsi in agglomerato urbano e perdendo le proprie specificità. Fu un’operazione complessa, attuata da Eugenio Broccardi fra particolarismi e resistenze, che se consentì di dilatare il porto trasformandolo nel «primo emporio del Mediterraneo», non impedì il saccheggio del territorio né il sorgere di quartieri – accresciutisi con gli anni – distanti da ogni razionale modello di sviluppo. Tra l’altro, continuarono a popolarsi, in antitesi con le concezioni mussoliniane che privilegiarono le campagne e la «ruralizzazione» a scapito dell’inurbamento, considerato alla stregua di una vera e propria piaga da sanare. Abbiamo poi affrontato – e concluso – il capitolo Giulietti, l’ex potente segretario della disciolta Federazione dei lavoratori del mare, trasformata – con il placet di Farinacci che ne inaugurò la sede – in Associazione marinara fascista, assai lontana dalla vocazione classista originaria. Giuseppe Giulietti, ormai esautorato da ogni ruolo attivo, vide inscenata una violenta campagna nei suoi confronti, che vari personaggi si preoccuparono di alimentare a partire dal 1926: dovette difendersi da attacchi concentrici, conobbe il carcere e il confino di polizia e un processo – basato su numerose accuse rivelatesi inconsistenti – che si trascinò lungo il corso del 1927; alla fine si riconobbero fondate le sue argomentazioni e non lo si condannò, ma gli si impedì di lavorare e di riprendere il mare, come aveva inutilmente e ripetutamente desiderato. Per vivere, fu costretto ad accettare un sussidio assegnatogli per ordine di Mussolini, che nel 1945, al termine della guerra, fu causa di altre vicissitudini e di un nuovo imprigionamento con l’accusa, stavolta, di essere stato confidente dell’Ovra. Il tramonto di Giulietti si può simbolicamente far coincidere con il tramonto del sindacalismo classista, che ugualmente capitolò nel 1927: infatti la CGL, l’ultima delle grandi organizzazioni operai a resistere in ordine di tempo, si autosciolse, mentre il sindacalismo fascista, ormai padrone assoluto del campo, dilagò senz’altri ostacoli, tranne beninteso quelli imposti dal regime, intenzionato a realizzare – attraverso gli enunciati della Carta del lavoro e appositi istituti – il corporativismo basato sullo «Stato dei produttori» che rimase, questa sì, una vuota dichiarazione, per le posizioni antitetiche e inconciliabili di prestatori d’opera e datori di lavoro. Quindi ci siamo soffermati sia sulle questioni economiche immediate – comprese le riduzioni di stipendio ai lavoratori a seguito della realizzazione della cosiddetta «quota novanta», cioè il raggiungimento della parità aurea, ma anche sull’andamento della regione – che sui grandi avvenimenti che hanno contraddistinto il 1929, come i Patti lateranensi, del febbraio e il plebiscito, del successivo marzo, riprendendoli per le implicazioni liguri. Quanto ai Patti lateranensi è inutile dire che nella regione vennero accolti con entusiasmo un po’ a tutti i livelli, gerarchie eclesiastiche in testa, cui si sottrasse parzialmente l’arcivescovo di Genova Dalmazio Minoretti; la loro firma, del resto, metteva fine a una questione che risaliva all’Ottocento e «sistematizzava» le pendenze, anche finanziarie, tra lo Stato italiano e la Santa Sede, che ottenne indubbi vantaggi morali e legislativi, a cominciare dal riconoscimento della religione cattolica come religione di Stato. Questo però non impedì che si procedesse nel decretare lo scioglimento di circoli e associazioni cattoliche giudicati «contrari al regime». L’argomento è stato trattato ma non terminato, perché manca la gravissima crisi del 1931, che sarà oggetto di un prossimo volume. Sul plebiscito, preceduto da una martellante propaganda a senso unico e da comizi elettorali tenuti dai prefetti, la situazione ligure è particolare, perché nonostante tutto, nonostante gli artifizi adoperati per conoscere all’istante la volontà dell’elettore (perfino le schede usate per esprimere la preferenza erano diverse e al momento della consegna si poteva ritirare soltanto quella che si intendeva votare), si ebbero oltre 11.000 «no», segno che qualcosa – poco, ma per dirla con Ansaldo, furono appunto i pochi ad avere ragione molti anni dopo – non era andato per il giusto verso e ciò provocò le reazioni dei fascisti, che attraverso i giornali riservarono ai coraggiosi che avevano «osato» sfidare il regime minacce e ingiurie. Tuttavia, al punto in cui erano giunte le cose, nessuno fra gli oppositori sarebbe riuscito a organizzare le masse per tentare di cambiare la situazione. Che come sappiamo fu destinata a durare per altri quindici anni.