STORIA CONTEMPORANEA
STUDIO DEL PERIODO FASCISTA

Credo che, ancora oggi, la definizione di storia risponda pienamente a quella che ne diede Marc Bloch nel 1944: La storia è lo studio dell’uomo nel tempo. E se i nostri caratteri originali, il più tenace dei quali sembra essere il particolarismo, si spingono molto all’indietro, è appunto partendo dalla definizione di Bloch, che è in fondo un superamento della concezione positivistica della storia, che si aprono spazi alla periodizzazione e alla storicizzazione di avvenimenti contemporanei: in altre parole il contemporaneo, come l’antico, il medievale o il moderno, ha acquistato una propria legittimazione scientifica. Per me – ma ormai sembra essere normalmente accettato – lo studio dell’età contemporanea coincide con lo studio del XX secolo. Ho scelto, in questo preciso arco di tempo, lo studio del fascismo, un fenomeno peculiarmente italiano, di cui esistono diverse definizioni, a volte in antitesi tra esse. Senza riprenderle adesso, mi pare più corretto sostenere che, alla qualifica di «regime totalitario», al fascismo si può riconoscere quella di un «regime reazionario di massa» innestato sui tronconi dello Stato liberale. Non è neppure sbagliato affermare che conteneva in sé elementi tali da avviare il paese sulla strada della modernizzazione. Del resto, in sede storiografica, la tesi ha avuto ormai ampi riscontri, tanto che si è ridotta fortemente la valenza del «paradigma» antifascista (che, nel tentativo di trovare una soddisfacente collocazione del fascismo, lo ha tra l’altro rappresentato come una reazione contro il progresso e quindi come un ostacolo allo sviluppo della società, o come un «accidente» di percorso nel cammino verso la democrazia); la nuova concezione, benché abbia spesso dovuto sobbarcarsi le accuse di illegittimità e di fiancheggiamento, non ha peraltro mai giustificato alcun aspetto della dittatura. Le contraddizione insite nel paradigma sono state poi superate da quegli indirizzi che hanno riconsiderato il rapporto tra fascismo e modernizzazione. Da intendersi non solo economica (sviluppo industriale, reddito, distribuzione della forza lavoro, meccanizzazione delle campagne, ampliamento dell’intervento pubblico nell’assistenza e nelle infrastrutture, ecc.), ma anche politica e sociale, con vari indicatori: scolarizzazione, demografia, urbanizzazione, partecipazione alla vita associativa, creazione di nuove tecniche propagandistiche, mobilitazione, ecc). Andando a ritroso nel tempo, il primo ad accorgersi che il fascismo non era soltanto reazione al servizio della grande borghesia capitalista è stato Luigi Salvatorelli, il quale nel suo classico Nazionalfascismo, pubblicato nel 1923, vide in esso, oltre la reazione e la violenza, un fenomeno nuovo di mobilitazione delle classi intermedie, in special modo alimentato da una piccola borghesia «umanistica», priva però di una vera cultura a dispetto del termine. Proprio la mobilitazione delle classi intermedie rese possibile, in Italia, l’affermarsi di un processo di modernizzazione guidato dall’alto, lento finché si vuole e antidemocratico ma indiscutibile, cui corrispose il tentativo politico del fascismo di porsi come forza autonoma a scapito di liberalismo e comunismo, ritenute «dottrine sorpassate». Un tentativo che previde altresì, tra le pieghe della «via al progresso», la soppressione dei diritti politici e civili, l’instaurazione di un regime poliziesco e l’uso sistematico della coercizione e del terrore. E che si appoggiò, nelle fasi antecedenti alla presa del potere, a squadre armate dispensatrici di violenza scaricata non verso l’alto, ma verso il basso, verso il proletariato agricolo e industriale, «colpevole» di minare gli status sociali consolidati. Una violenza che tornò a vantaggio della grande borghesia agraria e industriale, minacciata nel proprio interesse dalle spinte al miglioramento socio-economico provenienti dalle classi inferiori. Previde che la modernizzazione potesse attuarsi all’interno di un progetto totalitario, che non fu affatto una vuota enunciazione e che per dispiegarsi compiutamente doveva attuare la fascistizzazione del paese. Principale strumento per fascistizzare – operazione cui occorreva, quale condizione preliminare, l’esistenza di una società massificata – era il partito unico, inserito giuridicamente nello Stato, nonché organizzazioni collaterali da esso capillarmente controllate e che, in teoria, agendo secondo precise direttive, avrebbero fornito al regime una legittimazione popolare. Quanto alla «massificazione» della società è indubbio che quella italiana del primo dopoguerra conteneva le caratteristiche per diventarlo in brevissimo tempo. Il conflitto del 1915-1918, oltre ad aver agito come potente impulso verso la creazione di un’identità nazionale, aveva prodotto tutto questo. Così, dal dopoguerra, i principali indicatori che consentono oggi di definire una «società di massa» erano presenti: accrescimento demografico, concentrazione urbana della popolazione, diffusione della scolarità, accesso al voto e partecipazione politica, produzione industriale su larga scala. Basti pensare al forte bisogno di partecipazione e all’aumento della conflittualità prima dell’avvento del fascismo, quando irruppero sulla scena classi (proletariato e contadini) che intesero far udire direttamente la loro voce anziché delegare ad altri la propria rappresentatività. E basti aggiungervi quelle categorie che non si sentivano rappresentate né dalle organizzazioni classiste né dalla grande borghesia e che, in un primo tempo, del nuovo movimento fascista costituirono l’ossatura portante: i ceti intermedi, anch’essi parte integrante della società, i cui bisogni e le cui domande di identità il fascismo racchiuse inizialmente in un progetto politico. E’ vero che dopo il 1922 non ne secondò che in parte le aspettative e che nel fascismo stesso con l’inizio della dittatura a viso aperto e il trascorrere degli anni erano avvenuti profondi cambiamenti, ma ormai la strada del «regime reazionario di massa» avrebbe seguito percorsi delineati. Questo «modo» di studiare il fascismo offre scenari sorprendenti. Ne cito soltanto uno: il rapporto, spesso ambiguo – ma occorre considerare che si tratta di una ambiguità bivalente – del fascismo con il mondo della cultura, che non può essere risolto, come si è fatto in passato, adottando la parola d’ordine di un negazionismo diffuso, bollando il regime di anticulturalità, relegandolo nel limbo della «nefasta parentesi», dell’interruzione di un cammino iniziato all’indomani dell’unificazione del paese e ripreso dopo il ventennio con l’avvento della democrazia. Ormai alla luce della documentazione resasi nel frattempo disponibile appare questa una visione riduttiva; basterebbe, per dare un’idea significativa di che cosa si voglia intendere, sfogliare l’elenco dei periodici (oltre mille) nati o preesistenti e continuati durante la cosiddetta «parentesi». Non si faticherebbe a scovare quasi tutti i nomi della cultura italiana, dai più altisonanti ai semisconosciuti o del tutto sconosciuti, che se da un lato si adattarono alla ricerca di un modus vivendi con il fascismo che li mettesse al riparo da possibili ritorsioni, o più semplicemente, almeno fino al 25 luglio si «sentirono» fascisti, da quell’altro del fascismo assecondarono gli umori, servendolo e facendosi servire. Il Ministero della Cultura popolare (Minculpop) sovvenzionò tutto il sovvenzionabile; dagli spettacoli teatrali a quelli cinematografici, dalle canzonette ai concorsi artistici, dalle mostre ai festival di poesia. Sovvenzionò quindi scrittori, poeti, registi e pellicole cinematografiche, aprendo la strada all’intervento pubblico anche in tale campo. E’ chiaro che i beneficiati dovevano almeno dimostrare attaccamento ai principi fascisti, essere iscritti al sindacato di categoria, non rifiutare azioni entrare a tutto tondo nella foltissima schiera dei fiancheggiatori. C’è poi lo studio del periodo – per molti versi ancora oscuro – della Repubblica sociale italiana, che soltanto negli ultimi tempi ha cominciato a essere esplorato in profondità. La materia è complessa; se singoli aspetti di essa sono stati esaminati in passato e talvolta più di un aspetto, mi sembra non se ne abbia ancora colto il quadro d’insieme, che non può certo esaurirsi nella sola contrapposizione tra fascismo e antifascismo né, a maggior ragione, schierando il neofascismo in un campo e la resistenza nel campo avverso. Molte pubblicazioni di carattere storico negli anni precedenti hanno privilegiato questo o quel contesto, che indubbiamente è esistito ma che da solo non basta a spiegare compiutamente un mondo che presenta invece un’estrema variegatezza e proprie specificità, caratterizzato da una guerra civile di notevole ampiezza, da precarie condizioni di vita, da una crisi alimentare che non parve risolversi mai, da una povertà diffusa e dall’occupazione nazista, che rubava continuamente la scena con il suo ruolo primario, mai messo in discussione ma passivamente subito, accanto al neofascismo delle istituzioni ufficiali che quando non si resse sul consenso trovò conforto appoggiandosi alle «baionette tedesche». In altri termini, sono convinto che il regime di Salò non possa essere minimizzato, come ha preteso fare la storiografia sorta con l’immediato dopoguerra e proseguita con simili visioni oltre gli anni ’80, «sbloccata» soltanto in tempi recenti; neppure lo si può liquidare dichiarando che il governo instaurato era privo di vera importanza perché tutto si risolse accettando le imposizioni dell’alleato. Si ebbero notevoli differenze interne e non risulta affatto semplice definirne omogenei gli attori sociali; al contrario, vi furono parecchi livelli di collaborazione e di responsabilità. Per tutto ciò – sintetizzando – ritengo che lo studio critico del periodo fascista continui a riservare altre notevoli «scoperte».