AFORISMI

L’aforisma è una definizione che racchiude in poche parole il risultato di considerazioni fatte in precedenza, o di esperienze compiute. Ogni tanto, quando non scrivo storia, compongo aforismi. Di seguito, eccone una scelta (del tutto arbitraria, ne convengo), fino ad oggi rimasta chiusa nel cassetto.

Può essere faticosa la fede? Sì, dipende da quanto piacere si prova nel peccare.

L’inferno che Dante ha concepito per la “Commedia” mi sembra ancora troppo ameno per compararlo con quest’altro inferno, qui sulla terra. E il suo paradiso? Mi sentirei perduto se vi approdassi ma, a causa delle opere dei Santi dove eccellono il paradosso e la stravaganza, saprei rendermelo sopportabile all’insaputa dei santi stessi.

Soltanto chi soffre ha ben chiara la percezione del tempo. Quei minuti interminabili nell’attesa che si verifichi un evento qualsiasi; e poi le ore, i giorni trascorsi all’insegna del dolore e con la presunzione che non ne potrà esistere uno più grande. E’ allora che si cerca di rendersi sopportabile l’esistenza con l’odio e le maledizioni verso tutto e verso tutti.

Che dire dell’umanità nel suo insieme? Che ha tentato le strade possibili per uscire dal nulla, senza intravedere uno spiraglio per affermare che sia riuscita nello scopo.

Poiché vivo in perenne conflitto con il mio tempo, sono un decadente. Mi spingo nel passato, non m’interessa il presente, non so nulla circa il futuro. Comunque, ho un vantaggio: il pensiero che esprimo non somiglia a nessuno di quello degli altri.

Talvolta raggiungo l’alba senza dormire; allora mi rigiro nei sogni, come un malato conscio del suo male incurabile.

Circondarsi d’odio per difendere la propria solitudine...

Oggi, la mia idea del mondo fa sì che io mi trovi sempre nella convinzione d’aver vissuto fuggendo gli altri.

Dov’è la consolazione, per noi spiriti vacillanti? Nel sapere che facciamo nulla e andiamo da nessuna parte.

Il nostro riposo quotidiano, una vera inezia. Niente, a paragone del riposo che verrà, che non avrà mai fine.

L’angelo, raffigurazione che l’uomo fa dell’uomo. Per rendere il quadro completo, basterebbe aggiungervi un cannone...

Il cinico è un esibizionista che vorrebbe scandalizzare, con i suoi atteggiamenti, i profeti del senso comune. Egli mira al sovvertimento, usa la potenza del pensiero come arma capace di far presa sul pubblico, promuove il ridicolo e lo scherno a propri dei e non ne accetta altri. In realtà, dietro ogni cinico occhieggia il sentimento.

Ogni teoria che all’analisi dei fatti si dimostri vera, supera teorie in precedenza adottate sugli stessi argomenti ed il cammino dell’uomo compie un nuovo passo in avanti, piccolo o grande secondo i casi, benché non riesca a comprendere verso dove. Le teorie sono pensieri a breve scadenza operati dalla necessità per appropriarsi di un pezzo d’ignoto.

La stanchezza che proviamo di primo mattino, appena destati? Nulla che abbia a che fare con la fisiologia: semplicemente, sbadigli della ragione.

L’illusione della potenza, per il mediocre, consiste nell’arrogarsi gli attributi della classe dominante perché gli si concede l’accesso a qualcuno dei suoi privilegi. Nondimeno, in quanto illusione di potenza e non potenza concreta, non appena essa gli viene a mancare, precipita all’istante in una plaga di desolazione e continuerà a vivere nella noia l’esistenza che ancora gli rimane.

La stanchezza che prova il disilluso è pur sempre l’arma migliore per resistere al proprio disgusto.

Camminavo sulla scogliera in mezzo ai lamenti dei gabbiani che, disturbati nella pomeridiana fissità, si alzavano in volo al mio apparire. Non mi parve paura atavica, la loro; non avevano ancora imparato, né lo faranno mai, a rendersi sopportabile l’uomo.

Secondo la teologia la fede illumina e gli atei frequenterebbero le tenebre. Sto pensando a quei diseredati i quali, credenti e costretti a trascinare una vita miserabile, scorgono la luce in ogni angolo.

Follia è immaginare il nostro corpo come una corazza, quando il più piccolo dei dubbi riesce a trapassarlo ad ogni istante.

L’urlo è un buon antidoto allo psichiatra.

Leggere, leggere, leggere. Scelgo questa forma di autoflagellazione verso il crepuscolo e la protraggo per ore, talvolta fino all’alba. Le punizioni, come l’insonnia, sono notturne.

Si ricorda il nome dei tiranni, non quello degli adulatori; il nome di Dio, non quello degli angeli. Il terrore e la bontà ugualmente grandi rifuggono le mezze misure.

Sono prigioniero del mio corpo, segno innegabile che il pensiero è un tutt’uno con la fisiologia.

Non capisco perché Diogene si ostinasse tanto a cercare l’uomo. Cercarlo? Al suo posto, io l’avrei fuggito...

L’aurora rappresenta il compimento alla nostra bruttezza. Proviamo a considerarci all’alba, dopo una notte insonne o destati a fatica, davanti allo specchio. Vittime consapevoli del rasoio e delle creme lenitive, presi dal disgusto, nulla possiamo contro il Tempo, tranne imprecare o abbandonarci al riso.

Determinato a vivere circondato dall’estraneità, tutto lascia presagire che il mio non sarà un disegno vano: è perché non scorgo, ormai da tempo immemorabile, alcun divenire al quale possa appigliarmi.

Ho rincorso dei sogni perché non sono riuscito dal tutto ad impedirmi di essere uomo.

Eroe è chi sopravvive a se stesso e ne è consapevole.

Ciò che mi tormenta non sono i pensieri, è constatare che la mia mente ne crea in continuazione.

Un uomo è sopportabile soltanto alla fine di se stesso.

Un giorno mi presentarono uno scrittore di grido. Avevo letto qualcosa in passato, forse un saggio o un romanzo, riportandone impressioni sgradevoli. Cominciò a parlarmi della sua missione nel mondo, dell’eternità, della letteratura che travalica i secoli e i continenti. Scrivendo, mi disse, poteva disporre dell’universo. Lo ascoltai senza ribattere e quando ebbe finito gli voltai le spalle lasciandolo solo. Davanti a quel miscuglio di follia e gigantismo, davanti ad un uomo sprofondato a tal punto nel delirio, che peso avrebbe avuto la mia opinione? Eppure fui contento di sapere che da quell’istante preciso non avrei mai più aperto un suo libro.

Che dire dell’assunto di Max Stirner: “Ho fondato la mia causa sul nulla?” Magari potessi conoscere un uomo che l’ha fondata su qualcosa...

L’uomo l’ha quasi spuntata su tutto; se nel corso dei secoli ha digerito il pianeta, adesso come mai prima volge lo sguardo all’esterno in un crescendo parossistico, che forse è lucida follia. Vorrebbe vivere nell’avvenire e quest’attesa, destinata per il momento a non esaurirsi, serve solo a capire se si debba morire subito o chissà quando.

Ciò che nascondiamo di noi stessi è senza alcun dubbio la parte più interessante.

Secondo una scuola filosofica, sarebbe la tristezza l’unica causa delle nostre oppressioni. Sarà vero, non sarà vero? Ma se è attraverso la gioia che si esprime la gratitudine, poco importa verso chi o che cosa, si abbia almeno chiaro che tutto è, niente è. Per questo, molti pensano che la gioia sia la prerogativa degli squilibrati.

Da insonne, ho consumato le notti sui libri e ne sono uscito indenne, o così almeno credo, ben sapendo che ad ogni pagina letta corrispondeva una piccolissima trafittura al cervello.

Perché Adamo è fuggito dal paradiso se quel luogo, come ci dicono, era la perfezione? Appunto perché la perfezione non attrae abbastanza...

I miei aforismi, giova dirlo, nascono dal disgusto. In ogni modo lo faccio anche per non smarrirmi, dal momento che pratico la parola. Per questo l’umanità mi appare così miserabile, ed io con lei.

Come possiamo pretendere di trovare la felicità nell’altro mondo se ogni presupposto per darcela in questo è destinato al fallimento?

Scrivere mi costa immensa fatica. Non somiglio affatto a Balzac, che ha prodotto oltre cento libri, o a Simenon che ne ha scritti trecento. Alla fine, invece di compiacermi per l’opera realizzata, il disgusto mi assale. Dopo qualche giorno, quindici forse, termina il mio supplizio, quando giunge a consolarmi la mancanza d’interesse...

Fin dai tempi più remoti, l’uomo si appigliò alla religione; doveva pur creare qualcosa che gli permettesse di rimanere a galla in un mondo che riteneva ostile. Dapprima furono tronchi, acqua e fuoco ed altre cose terrene; in seguito inventò l’invisibile e l’indimostrabile, ma dette comunque agli dei sembianze umane, con qualche orpello per sovrappiù. E’ naturale che l’abbia intesa in questo modo; non avendo mai digerito la morte, un prolungamento della vita avrebbe messo le cose a posto, e per l’eternità.

E’ l’indolenza la condizione indispensabile per la nascita dei capolavori.

Immagino un Savonarola, un Martin Lutero, immagino le loro prediche roboanti; immagino gli anatemi scagliati da papi al colmo dell’esaltazione. Non posso non dissentire. La mia ammirazione va invece a chi ha scelto la via del deserto per andarsene in silenzio ed in mezzo al silenzio. Così non si avvelena la vita altrui e si termina lontano ed al riparo di tutti gli sguardi d’avvelenare la propria.

Il tiranno è incline all’eliminazione dei soggetti che possono turbare, anche in minima parte, il corso del suo dominio; il politico non osa tanto, perché c’è pur sempre una pubblica opinione e tuttavia mira all’ assoggettamento, mascherando o confondendo i mezzi con i fini. Egli non rinuncia agli scopi prefissi e sacrifica il suo ingegno, se ne possiede, al potere, invece di eccellere in un campo qualsiasi. E che ardore, che enfasi nei discorsi che pronuncia! Possiamo forse assolverlo sforzandoci di comprenderlo. Infatti, poiché vorrebbe asservire tutto e tutti, tende in realtà al non si sa che cosa...

Risulta più facile credere del suo contrario; è più agevole esautorare il destino rendendo partecipe della nostra fine anziché questo, la religione. Così, nel bene e nel male, ci garantiamo anche l’eternità.

Gli stoici definiscono la passione come una malattia dell’anima e consigliano d’evitarla con qualsiasi mezzo, compreso il suicidio; ma il suicidio possiamo figurarcelo come passione estrema, quintessenza della disperazione, una raffinata prodezza che consiste in un sottile atto di crudeltà verso noi stessi. Vero è che nel suicidio si aggira il destino e ci si perde...nella piena consapevolezza dei propri mezzi.

Nel disordine da fine del mondo rappresentato dal mio studio, in quella che un fisico definirebbe ‘zona a massima entropia’, sono nati i miei libri, o meglio ho compiuto un tentativo per misurarmi con la Storia. Forse non sarei riuscito a nulla in uno spazio meno ingombro; soprattutto, nulla avrei fatto senza sigarette e caffè. E mi sono rinnovato, credo, soltanto con l’uso di sinonimi, cioè consultando dizionari ed enciclopedie. Le opere terminate, poi, non hanno recato compiacimento nè orgoglio; al contrario, ho percepito la mia insignificanza. Così doveva essere: mentre avrei voluto che nella mia ombra si fossero annientate tutte le mie miserie.

Mancavano quasi due ore alla partenza del treno. Ero giunto alla stazione in anticipo e sedetti sopra una poltrona sgualcita, in una sala d’aspetto disadorna e sporca. Intorno a me tutti si agitavano per andare chissà dove, chissà perché. Poi mi si avvicinò una vecchia lacera, che trascinava un carretto cigolante, a chiedermi la carità. Avrei voluto non dar nulla, insultarla per sentirla urlare, per concederle un istante di gloria nelle prevedibili risposte; ma mi rassegnai come per una grande stanchezza e le feci scivolare in mano del denaro. Entrambi umiliati dalla vita, io consapevole e lei no, a che sarebbe servito rivoltare il coltello nella piaga?

Ciascuno trascina in sé un universo. Non ricordo quel saggio – o quel poeta – a cui dobbiamo un simile concetto, se mai si può definire tale. Io lo sostituirei così: ciascuno trascina in sé uno scheletro. Nella migliore delle ipotesi esso testimonierà per noi, dopo la morte e la putrescenza: avremo l’avvenire nelle ossa, almeno per qualche tempo.

Seneca racconta di alcuni che trovano riposo nella stanchezza. Decisamente, non vedo stato migliore per dissolversi.

Sto attraversando un periodo di sterilità, ne ho chiara coscienza. Tornerò mai a produrre? Posso perfino affermarlo che lo farò, non appena avrò ucciso il saggio che in me ancora riposa.

Chi si crede necessario dovrebbe perlomeno riflettere sulla sua condizione da morto.

Un incubo mi ha svegliato in piena notte. Mi sono alzato, scosso dalle visioni avute e mi sono detto: ‘Che ci faccio qui?’ Poi ho cominciato a camminare nella stanza, nell’attesa del mattino e sempre con quella domanda in testa. Un’ora dopo, più calmo, mi sono rimesso a letto, dove forse sarei riuscito a pensar meglio, o piuttosto a riprendere sonno.