ADRIANO V DEI FIESCHI

Una delle più potenti famiglie del Medioevo fu certamente quella dei genovesi Fieschi, conti di Lavagna. Nel Duecento – attraverso i due papi Innocenzo IV e Adriano V, che alla dinastia appartenevano – essi dominarono la scena italiana ed europea. In questo libro si parla soprattutto del secondo, Ottobono, delle sue lunghe e significative vicissitudini da cardinale, alcune davvero notevoli, e meno di quelle cui dette corso da pontefice, dal momento che rimase sul soglio papale appena trentotto giorni. Amico personale dei personaggi più potenti d’Europa – Enrico III, Luigi IX, Carlo d’Angiò, l’arcivescovo di Canterbury, Alessandro III, per un certo periodo Federico II di Svevia – e d’Italia, seppe destreggiarsi con abilità, assicurando ai familiari e alla Chiesa condizioni vantaggiose. Si parla altresì della storia agraria ligure, della storia dei genovesi, della storia italiana del XIII secolo, concordemente definito il passaggio dal mondo feudale al primo capitalismo, con tutte le contraddizioni ad esso legate. Un saggio che è una sintesi storica di un periodo entusiasmante, ricco di fascino, ma anche intriso di miti e tragedie; un periodo di crescita economica, culturale e sociale – basti pensare ai liberi Comuni o alle Repubbliche marinare – che non mancò di incidere sulle epoche successive, contribuendo a sviluppare il «particolarismo» italiano, superato soltanto – e neppure in modo definitivo – con l’unificazione del paese. Nel cominciare a scrivere la presente introduzione, ci preme mettere in chiaro una questione che riteniamo primaria: il lavoro descritto nelle pagine che seguono non è frutto di una ricerca condotta in qualcuno dei numerosi Archivi del paese. I documenti ed i testi consultati durante la sua stesura risultano editi e, tranne alcuni, facilmente accessibili. Molti, poi, appartengono ormai stabilmente da tempo all’alta cultura europea. D’altro canto – benché non voglia apparire una giustificazione – ci consideriamo specialisti di storia contemporanea e dunque il Medio Evo in teoria non dovrebbe rientrare nel nostro campo di indagine. Malgrado questo, misurarsi con il passato più remoto, quello dei «caratteri autentici» (che è comunque parte inscindibile della nostra storia e del nostro vivere quotidiano), è sempre una prova dal fascino indubbio e può aiutare a comprendere meglio le situazioni attuali che molto debbono, crediamo, al retaggio dei secoli trascorsi. (Basti pensare al «senso etico» degli italiani, spesso così oscillante, che in ultima analisi si può far risalire alla mancanza di una unità nazionale almeno fino al Novecento inoltrato e che neppure oggi ci sentiamo di definire esente da particolarismi e frammentazioni nonostante i progressi compiuti, o alle durissime quanto sanguinose lotte fra guelfi e ghibellini, vere e proprie «guerre civili» cittadine il cui scopo era quello di assicurare il potere ad una fazione o a quella contrapposta). Nemmeno l’idea centrale – il secolo di Adriano V, con particolare riferimento a Ottobono Fieschi, nipote di Innocenzo IV, prima ancora di diventare papa cardinale – è nostra; la dobbiamo a Marco Bo, presidente del circolo Acli di Trigoso, cui si deve anche la creazione della collana «i ciottoli», dove anche questo studio è pubblicato. E’ merito suo averne promosso la realizzazione ed essersi ado-perato per vederla terminata. Da parte nostra, abbiamo aderito volentieri all’iniziativa; per stima sincera nei confronti di Marco Bo innanzi tutto, per capire meglio come stavano le cose nel XIII secolo, il che significa interpretare, per offrire un modesto strumento a chi fosse interessato ad approfondire i singoli aspetti illustrati, per superare alcuni lavori di carattere locale nel cui titolo compare la parola «storia» ma che, ad una analisi del contenuto, nel migliore dei casi di storico hanno poco o nulla difettando di metodo, di esposizione, di nuovi apporti critici. Per non parlare dell’uso, spesso improprio, e in ogni caso di dubbia dimostrabilità, dell’etimologia che in tali opere si è fatto. Precisato questo, alcune parole sul contenuto crediamo opportuno spenderle. Ci è parso doveroso, al principio, tratteggiare la storia dei genovesi, mettendo in risalto il trapasso dal sistema feudale alla Repubblica (forma particolare del Comune), per giungere alla straordinaria fioritura commerciale dei secoli XII-XV che innalzò Genova – con Venezia – al rango di prima potenza economica del mondo occidentale. Naturalmente fu un processo articolato, non privo di ombre, qui e là alternate alle luci: disoccupazione, carestie, povertà diffusa, scadente qualità della vita, sommosse, guerre interne e sovraregionali scandirono talvolta la vita della Repubblica, intervallate a prosperità e ricchezza, di cui però non beneficiarono in modo eguale tutte le classi sociali. Ma furono indubbiamente fasi di crescita e di egemonia, a partire dalla prima crociata (dove gli armatori genovesi misero a disposizione la flotta per il trasporto degli armati in Terrasanta, cominciando ad assicurarsi il dominio del mare), che subirono battute di arresto dal XVI secolo in avanti, nell’epoca in cui la città ed i suoi possedimenti entrarono nelle mire della Spagna. Tuttavia, le forti basi preesistenti non impedirono un successivo periodo positivo. Con un po’ di immaginazione (neppure troppa a dire il vero) si può ipotizzare che il sostenuto quanto disomogeneo sviluppo industriale del Novecento si debba far risalire all’indietro, nei secoli della massima espansione commerciale della città, quando si affermò una mentalità mercantilistica i cui «tratti distintivi» si sono spinti fino ai nostri giorni. Ci siamo poi indirizzati verso alla storia agraria ligure, un po’ perché la regione, priva di retroterra e di grandi spazi coltivabili, poté dedicarsi verso un’agricoltura povera o finalizzata a colture specialistiche, la cui evoluzione è giusto conoscere; un po’ perché anche qui è possibile intravedere, nel modo di produzione e nell’affermarsi di tecniche agrarie prima sconosciute l’inizio di ciò che rimase, quasi immutato, per lunghi secoli; la lavorazione a «fasce» dei declivi collinosi, ad esempio, ma anche l’espansione della vite, dell’ulivo e del castagno, che costituirono la base, senza nuove aggiunte, dei principali prodotti liguri. Abbiamo quindi trattato dei contadini e della vita dei contadini, svoltasi quasi sempre secondo modelli che includevano la povertà, l’indigenza e condizioni di servaggio (specie nei domini feudali, ma anche altrove) destinate a durare malgrado i progressi tecnici e la maggiore quanto relativa libertà goduta con l’affermarsi del Comune, coltivando appezzamenti in teoria non infeudati, per terminare con una sommaria e, riteniamo, utile descrizione del «sistema a ville», in uso dal tramonto della società comunale, appena le oligarchie nobiliari tornarono a legare i contadini alla terra. Le vicende politiche del tempo sono un altro dei temi considerati; dalla lotta del papato contro l’Impero (che occupò non soltanto il XIII secolo ma anche gli ultimi decenni di quello precedente e vide primeggiare talvolta una parte e talvolta la parte avversa) a quella, non meno significativa, tra guelfi e ghibellini, i primi simboleggiati in Li-guria dai rappresentanti delle famiglie patrizie Fieschi e Grimaldi, i secondi dai Doria e dagli Spinola. In entrambi i casi la posta in gioco era il potere; rispettivamente universale per la Chiesa, terreno ma il più possibile esteso e considerato di natura divina per l’imperatore ed i suoi corifei, cui importava un potere di tipo locale e dunque particolare. Anche fra guelfi e ghibellini, cui non è affatto estranea, in senso generale, la classica antinomia fra nobili e «popolari» – che diedero vita ad un proprio autonomo percorso inserito nel percorso più ampio delle potenze dominanti –, la posta in gioco era il potere cittadino. Fu quando, fra le fazioni avversarie, si diffuse la pratica di chiamare sovrani stranieri a risolvere controversie interne, con il risultato di reiterare dominazioni che quasi mai corrisposero alle aspettative di chi le aveva volute e finirono per diventare molto onerose. Quindi, come recita il titolo del nostro studio, ci siamo rivolti al cardinale Ottobono Fieschi, poi papa Adriano V e, nei limiti del possibile – ovvero nei limiti delle fonti disponibili –, abbiamo cercato di descriverne la vita, che fu piena e intensa, svoltasi sempre ad altissimo livello ai vertici delle cariche ecclesiastiche, perciò politiche, e terminata da pontefice, cui però mancò la consacrazione per il sopraggiungere della morte, avvenuta a Viterbo il 18 agosto 1276, proprio mentre la sua città, Genova – a quel tempo ghibellina –, si apprestava a riappacificarsi con il guelfo Carlo d’Angiò da lui un tempo sostenuto. Di Ottobono, ci sono sembrate di grande importanza – soprattutto come fatti politici, di costume, spaccato della sua epoca e forse bisogno di scrittura, del resto l’unico mezzo per comunicare a distanze altrimenti irraggiungibili – le cosiddette «lettere inglesi», cioè una parte dell’epistolario risalente alla sua missione in Inghilterra, raccolto dalla storica britannica Rose Graham nel 1900 e che abbiamo rispolverato per l’occasione, in modo da rendere il racconto della vita del cardinale non trascurando questo particolare punto di vista. Anche la scomparsa basilica di Sant’Adriano di Trigoso, per ovvi motivi, è rientrata nel nostro esame. Infine, a completamento dell’indagine, proponiamo un’appendice di documenti, compreso il testamento di Ottobono, alcuni inediti o sconosciuti crediamo, altri pubblicati molti anni addietro nella lingua originale, il latino, tradotti con competenza – il che significa senza alterarne il contenuto e in forma organica – da Ornella Visca, esperta in lingue classiche, fra le quali rientra appunto il latino medievale, che ha accettato di sobbarcarsi la fatica. Il costante confronto avuto con lei ha dimostrato che la sua non è stata opera facile né breve. Utilissima, questo sì, senza alcun dubbio, perché ha permesso di rettificare sensibilmente affermazioni precedenti, leggendo le quali si evince che si sono fatte traendo dal testamento visioni deformate, parziali e continuamente ripetute negli anni a scapito della chiarezza e del rigore storiografico.